Il problema della serietà Questo era proprio il classico argomento di cui non volevo parlare. E ne parlo qui perché è il contesto giusto: riflessivo, lontano dal casino e dai riflettori di YouTube (infatti non produrrò una puntata di Daily Cogito a riguardo). Oggi vorrei parlarvi dell’intervista che Michela Murgia ha rilasciato al Corriere a riguardo dello stato terminale della sua malattia. Partiamo dal fatto che leggere l’intervista mi ha fatto stare molto male. Ai miei occhi è evidentemente il tentativo di elaborazione di una perdita futura (e presente: la perdita del futuro) in cui la persona usa lo strumento che ha imparato a conoscere meglio durante la sua vita, ovvero il clamore mediatico. L’intervista mi ha ricordato quelle rilasciate da Nadia Toffa anni fa, che anche allora mi lasciarono l’amaro in bocca a lungo. Ognuno elabora il dolore nel modo che ritiene più opportuno, ma dovremmo anche ricordarci che quel dolore non è veicolo di insegnamenti, se non per chi lo vive. Per questo, l’esposizione mediatica rimane, a mio avviso, il mezzo peggiore con cui elaborare lutti e perdite nel momento in cui si stanno vivendo. “Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. (…) Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno.” In questo passaggio Murgia esprime un’idea molto interessante ma anche molto personale. Ora, io non so come lei stia intimamente vivendo la vicenda (ricordiamocelo: quel che viene mostrato in pubblico è raramente quel che si vive interiormente) e non so quanto questo tipo di narrazione provenga dalla volontà di mostrarsi forte e determinata. Quel che so è che non tutti coloro che usano il linguaggio bellico contro la malattia stanno “facendo la guerra a se stessi”. Infatti, Murgia dice: “Parole come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia molto gentile.” Al di là del fatto che spesso il cancro è una malattia tutt’altro che gentile, ma l’accettazione di un destino non passa per l’accettazione del cancro come “gentile”. Qui mi ricorda Nadia Toffa, quando diceva che il cancro era la cosa migliore che le fosse capitata. E per quanto possa esserci un barlume di verità (magari la scoperta della malattia ti spinge a vivere appieno relazioni che davi per scontate, et cetera), non è mai vero quando viene espresso al di fuori della soggettività: diventa una narrazione che distorce il significato stesso della “lotta” contro una malattia. Un po’ come quando capita un terremoto che ammazza centinaia di persone: io posso sapere in cuor mio che nel terremoto non c’è nulla di malvagio e che il movimento tettonico terrestre non è mio nemico, ma ciò non mi esenta dal vivere una metafora in cui il terremoto diventa anche un nemico, un ricordo, un concetto contro cui rivolgere la mia rabbia, per quanto senza scadere nella superstizione. Accettare il fatto che il tumore è un cumulo di cellule distorte e prive di un piano maligno non significa esentarsi dall’idea di combatterlo come combatterei un invasore in casa mia. Siamo anche le nostre metafore e nulla di male c’è nell’adottarle in modo consapevole. Michela Murgia però non si limita ad esprimere la sua soggettività, esprime un forte giudizio nei confronti di chi invece vuole fare la guerra alla malattia: “Ognuno reagisce alla sua maniera e io rispetto tutti. Ma definirlo così [un alieno, ndr] sarebbe come sentirsi posseduta da un demone. E allora non servirebbe una cura, ma un esorcismo. Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me. Non avrei mai trovato le energie per scrivere questo libro in tre mesi” Ecco, qui le cose cominciano ad andare malino. L’intervista è palesemente un “testamento” in cui la Murgia cerca in tutti i modi di elaborare il proprio lutto marchiando a fuoco le proprie idee, sapendole intoccabili nel momento in cui lei è la vittima di un fatto tragico. Ha l’ardire di piazzare Putin e Zelensky in un discorso che nulla ha a che vedere con la guerra in Ucraina, spostando subito il discorso dalla sua intimità alla politica. Questa è un’elaborazione di lutto drammatica, triste, che forse non sarebbe stato neanche opportuno pubblicare (non per censura, ma per compassione e vicinanza umana – dissi la stessa cosa con il caso di Nadia Toffa chiedendomi cosa passasse per la testa delle persone che la circondavano e che avrebbero dovuto tenerla lontana dalla dopamina dei riflettori per stare vicina a chi l’amava, invece di delirare sui giornali). E lo statuto di “vittima” di Murgia (lei questo, sono certo, lo sa bene, o forse lo sapeva in passato quando era più lucida) le concede anche la possibilità di dire le cose in modo più aspro, grave, audace, senza poter essere criticata e confutata. Non è bello da vedere. Nell’intervista vengono ficcate dentro alla rinfusa (e alla confusa) colonialismo, Elly Schlein, basi militari, famiglia queer, Salvini, come se la Murgia avesse dovuto comprimere tutta la carriera delle sue idee in poche righe in quello che è, appunto, un testamento da lasciare a nessuno e che testimonia solo una fragilità nascosta sotto la segnalazione delle virtù. Alla domanda sul nucleo familiare tradizionale, Murgia risponde: “Ma finiscono per vivere di tradimenti e di bugie. Che diventano il loro segreto, e la loro vergogna”, dimenticando che per milioni di persone quel nucleo non è fatto solo di tradimenti e bugie, ma anche di vicinanza e complicità, soprattutto nei momenti simili a quelli che lei sta vivendo (come se poi tradimenti e bugie non