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Non ne saprai mai abbastanza

La consapevolezza dell’ignoranza cosa ti fa? Alcuni, di fronte alla considerazione “non ne saprai mai abbastanza” si abbattono e si convincono che il gioco non vale la candela. Altri (sottoscritto compreso) si sentono stimolati a procedere, ben conoscendo che il traguardo finale sarà sempre e comunque un quasi-nulla-di-fatto. Ciò che mi spinge a perseverare nel campo della curiosità, pur consapevole che non ne saprò mai abbastanza, è la consapevolezza che ciò si applica non solo alle conoscenze tecniche, scientifiche o culturali, ma anche alle relazioni, al carattere, alla mia stessa psiche. Non ne saprò mai abbastanza di me stesso, di mia moglie, dei miei vicini, delle mie paure, dei miei difetti, e solo molto dopo arrivo a dire: non ne saprò mai abbastanza di filosofia, di fisica, di psicologia, et cetera.  Mi sono convinto, nel tempo, che chi si arrende al “mai abbastanza” e getta la spugna (smettendo di incuriosirsi e studiare, arrendendosi alla conoscenza altrui e all’estraneità, non nutrendo un sapere nei confronti di qualsiasi cosa possa attirarlo) finisce per inaridirsi e lasciare molto di più la propria vita in mano al caso. Se non nutro la curiosità, se smetto di cercare, se mi arrendo all’ignoranza, allora la mia condizione diventa statica e ciò significa che i movimenti del mondo mi prenderanno sempre alla sprovvista, mi sballotteranno a destra e a manca senza che io possa farci granché, diventerò simile a una palla di gomma che rimbalza insensibilmente verso la morte. E ciò, per me, è angosciante. Per questo, credo che la fatica della curiosità sarà sempre meno dolorosa e tragica della staticità solo apparentemente comoda. E che il “sapere di non sapere” deve davvero diventare un motore di auto-comprensione e non un anatema da rifuggire. Avere il coraggio di affacciarsi alla propria ignoranza e accettarla, senza ritrarsi, è parte integrante del saper sopravvivere ad un mondo di continuo cambiamento.

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guardati mentre non stai vivendo newsletter ufficiale rick dufer daily cogito

Non stai vivendo bene? Inizia a GUARDARTI

Guàrdati, mentre non stai vivendo Come si fa a guardarsi vivere? Hai mai provato a fermarti per un secondo e tentare di “prendere le distanze” dal tuo punto di vista? Lo so, sembra una follia perché, dannazione, io SONO il mio punto di vista!!! Eppure, è un’azione necessaria a comprendere la rilevanza di certe scelte, la gravità di alcune azioni, il potere che potremmo avere su noi stessi e che invece non esercitiamo. Philip Dick diceva che “la vita è quella cosa che accade quando non guardo”, e su questo aveva assolutamente ragione. Ma possiamo, di tanto in tanto, provare a guardare “senza” vivere. O meglio, “dopo” aver vissuto.  Su questo, la lezione di Marco Aurelio è importantissima: comprendere se stessi significa fermarsi anche solo mezz’ora al giorno e riflettere attentamente (ma soprattutto onestamente) su quanto compiuto durante la giornata. Ho parlato in modo chiaro ai miei interlocutori, oppure sono stato pigro nell’esprimermi, criptico nel dire ciò che volevo? Ho agito correttamente nei confronti dei miei colleghi, amici, vicini o familiari, oppure li ho trattati con poco rispetto, dimostrandomi insensibile alla loro presenza? Ho risposto prontamente alle chiamate, alle richieste di soccorso, o mi sono nascosto vigliaccamente? Ho onorato le mie responsabilità, oltre all’aver goduto dei miei guadagni, oppure ho usato come spesso due pesi e due misure tra oneri ed onori? Ho forse sprecato più tempo di quanto potessi concedermi? Ho mentito? E, quando l’ho fatto, ho avuto il coraggio di ammettere la menzogna? Ho avuto cura di me, del mio tempo, delle mie capacità, oppure mi sono lasciato andare passivamente agli eventi, alle gradevolezze, all’inedia? Tutte queste non sono domande opzionali ma necessarie a rimettere in focus la mia vita. E questa non è una cosa che “farò un giorno” ma è proprio ciò che DEVO fare oggi, e poi domani, e dopodomani ancora. Ogni giorno, mi ritaglio mezz’ora per rispondere alle domande e, in questa occasione, ri-pensare a come ho condotto la mia giornata. Mi accorgerò di moltissime falle, tante vergogne, una montagna di debolezze, ma accorgendomene (ovvero, “guardandomi vivere”) potrei essere più pronto, alla prossima occasione, nel rispondere con maggior presenza.  Se in queste parole hai riconosciuto anche solo un barlume della tua vita, ti consiglio QUESTO: è un mini-corso gratuito che ho fatto con Gennaro Romagnoli, mettendo insieme la saggezza antica degli stoici (Seneca, Marco Aurelio, Epitteto) e la psicologia moderna. Iscriviti, sono certo che non te ne pentirai!

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il pubblico non esiste ma tu si esisti rick dufer newsletter ufficiale daily cogito dibattito odifreddi michele boldrin

Il Pubblico non esiste (ma tu sì, esisti)

Il pubblico non esiste Il motivo per cui è sempre meglio fare quel che si desidera e non quello che si pensa gli altri desiderino (come ho detto nel Daily Cogito di qualche giorno fa) è che gli ALTRI non possono mai essere davvero accontentati.  Lunedì ho tenuto un (bel) dibattito con (un brutto) Odifreddi e ho deciso di non interrompere, di incalzare senza sormontare, di smentire e sbugiardare senza insultare o alzare i toni: l’esperimento, che discuterò in live oggi con Boldrin (in disaccordo col mio atteggiamento) era volto a fare il contrario di quanto feci un annetto fa con Diego Fusaro. In quel caso infatti il mio linguaggio corporeo e verbale, i miei toni e le argomentazioni erano tutti volti anche a contrastare in modo deciso ed emotivo l’interlocutore. Io, caratterialmente, sono molto più in linea con quanto fatto con Fusaro, ma con Odifreddi ho deciso di provare, dal momento che nel dibattito con Dieguccio avevo ricevuto molte critiche: “Maleducato”, “interrompeva sempre”, “le faccine”, “la gestualità”, et cetera. Il dubbio, in quel caso, era quello di aver messo Fusaro sulla difensiva e non essere riuscito ad andare al nocciolo delle sue idee.  Dal momento che il dibattito è volto a sviscerare ciò che sta alla base delle prospettive sulla realtà, con Odifreddi ho fatto il contrario e credo che il dibattito mi abbia dato ragione: lasciando spazio al “logico” e non interrompendolo (anzi, facendolo sentire a suo agio) lui non si è messo sulla difensiva e ha espresso eccome le fondamenta delle sue posizioni (ricordo solo: “le guerre di confine sono accettabili”, “a Norimberga i nazisti avevano ragione” e la reazione “ma cosa c’entra ora” al mio incalzare sugli omicidi di giornalisti da parte di Putin). Il mio esperimento è perfettamente riuscito: le posizioni dei “pacifinti” crollano da sole sotto il peso delle idiozie quando le si lascia esprimere frenando la tentazione di mandare tutti a fare in culo, e Odifreddi ha espresso idee veramente inaccettabili, condite di errori storici e mala informazione di livelli byobluani. Credo che le persone dotate di cervello possano capire in autonomia l’insostenibilità di certe parole.  Nonostante ciò, ho ricevuto una certa quantità di messaggi da chi mi dice: “Sei stato troppo accondiscendente”, “gli hai dato troppo spazio”, “ti sei reso complice” (sì, anche questo mi è stato detto, SIC!) – cosa che prova incontrovertibilmente un fatto conclamato: il pubblico è incontentabile perché l’opinione pubblica NON ESISTE! Esiste solo la varietà amplissima delle opinioni di individui che sarà sempre impossibile mettere in una qualche forma di accordo.  Per questo motivo io, sui miei canali, farò sempre quello che io riterrò opportuno e necessario, senza tener conto dei desideri del pubblico: il pubblico non desidera, così come le nuvole non desiderano. Il pubblico è un’astrazione che non ha volontà ma solo interpretazioni approssimative. Ci sono invece persone, molte, che si faranno la propria opinione a prescindere da quello che io desidero loro pensino, e decideranno autonomamente se seguire quel che faccio oppure andare in un’altra direzione: questo è, per me, avere fiducia delle persone e anche di me.  Oggi però affronterò le obiezioni di UNA PERSONA, anzi, un amico: Michele Boldrin. Quelle esistono, vanno valutate e vedremo che cosa ne uscirà!  Intanto, vi auguro una buona domenica.

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illusione della passione contro i guru newsletter rick dufer daily cogito cristoph waltz

L’illusione della passione: contro i guru

La malattia della passione “Just because you don’t have a burning passion for your job, does not automatically mean something is missing for you.” Questa frase è stata detta da Christoph Waltz in questa intervista e mi ha fatto molto riflettere: l’idea che il tuo lavoro debba corrispondere alla tua passione è una grande illusione e, anzi, un rovesciamento dei termini. Infatti, non è scoprendo la propria passione che uno intraprende poi un certo percorso lavorativo, ma è l’esatto opposto: uno lavora, si affatica, si impegna, e da lì scopre ciò che lo appassiona, eventualmente.  Ovviamente, è un’idea molto meno seducente del suo opposto: “Prendi la tua passione e trasformala in lavoro!” – ma se non sai qual è la tua passione, come fai a lavorarci? In realtà, è proprio il LAVORO che ti fa scoprire la passione, è l’impegno che ti rende chiaro cosa ami, sono lo studio e la fatica a mostrarti cosa muove davvero il tuo spirito – e in questo non è detto che lavorando, impegnandosi o studiando tutti possano scoprirlo.  Se prendo il ragionamento di Waltz e lo applico al mio caso, il panorama diviene molto chiaro: ho scoperto la grande passione per la filosofia solo attraverso uno studio matto e quasi ossessivo consumato quando ancora non potevo sapere se ciò mi avrebbe portato a qualcosa di fecondo; ho trovato l’amore per il video e la divulgazione imparando a fare video, faticando molto per trovare il mio spazio, e solo lì ho poi scoperto quanto mi piacesse (anzi: ho scoperto che mi piaceva proprio perché ci avevo speso montagne di tempo ed energie); ho trovato l’amore per il teatro grazie al fatto di averci messo un grande impegno senza che nessuno mi garantisse di essere bravo a farlo. E via così.  La vita è prima di tutto fatica, impegno, sacrificio, i quali poi, forse, portano a scoprire cosa ci appassiona. Ovviamente, i guru di tutto il mondo vi diranno il contrario perché la possibilità di scoprire la propria passione e trasformarla in lavoro ci illude di poter lavorare senza fatica, con garanzia di felicità, nel disimpegno esistenziale che tutti quanti di continuo ricerchiamo. Ma è una brutta menzogna.  Ed essa porta con sé un’altra conseguenza: se non sai qual è la tua passione, allora hai qualcosa di sbagliato. Se non hai capito (non si sa attraverso quale metodo fantasioso) cosa ti appassiona, è perché hai una radice storta. Quindi, solo chi è “giusto” sa qual è la propria passione e può farne un lavoro, tutti gli altri sono stronzi. Questa è una bugia che ci mette nell’animo insicurezze destabilizzanti: “Ho vent’anni e non so quale sia la mia passione” è una frase che spesso mi viene rivolta e porta con sé tante paure illusorie: la paura di essere “sbagliato” perché non ho una passione; il timore di essere tra gli sfortunati che dovranno fare un lavoro che odiano; il terrore di dover faticare per farsi una vita e non, come i fortunati, vivere disimpegnati e felici.  Vi svelo un segreto: non c’è passione “data” al di fuori della fatica e dell’impegno, non c’è chi scopre la passione al di fuori del lavoro e dell’abnegazione. E non esiste lavoro che si sorregga sul disimpegno e sulla leggerezza.  Superare i guru da “Baci Perugina” è un atto di emancipazione importantissimo. Sta per cominciare il nuovo Stand-up Cogito #QUALEFELICITÀTOUR – qui tutte le info

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la filosofia è dove non te l'aspetti newsletter daily cogito rick dufer cosa è un filosofo

La Filosofia è dove non te l’aspetti

Laddove non te l’aspetti Uno dei commenti critici che ricevo più spesso è: “Un filosofo non dovrebbe… non direbbe… non farebbe…” – è una sorta di rafforzativo di una critica che spesso, mancando di sostanza, deve sostenersi sull’idea che il commentatore SA cosa ci si aspetta da un filosofo, mentre io no.  Ho sempre trovato molto ridicola questa presa di posizione perché mi rendo conto che denota una grande mancanza di consapevolezza su cosa significa incontrare la filosofia, che questo avvenga in un libro oppure attraverso un canale YouTube. Chi dice che “un filosofo non dovrebbe direbbe sarebbe farebbe” sta solo esprimendo la sua necessità di chiamare “filosofo” colui/colei che aderisce perfettamente alle sue aspettative. “Io la penso così, quel che penso è saggio (a prescindere dal contenuto) e se tu lo contraddici non puoi essere saggio”.  Si tratta di un modo povero di osservare il mondo, di relazionarsi alla cultura poiché quest’ultima è proprio l’esatto opposto: incontrare ciò che mi ricorda di dover sempre ampliare, rivedere e criticare le mie posizioni di partenza. La cultura è lo strumento adattivo che la natura ci ha fornito per evitare che la sedentarietà intellettuale ci porti allo sfinimento, all’impigrimento e infine all’estinzione.  Ho sempre letto filosofi che contrastavano con le mie idee e ciò mi ha sempre permesso di arricchirmi. Se avessi sempre letto filosofi (o “chiamato” filosofi, SIC!) che davano ragioni alle mie posizioni più o meno pregiudiziali, che vita impoverita avrebbe avuto la mia mente!  Per questo, lo voglio ribadire, il mio lavoro è quello di contrastare le tue opinioni, non di confermarle; di ampliarle, non di ridurle; di allargarle, non di sintetizzarle! Poco importa chi mi chiama filosofo, ignorante od ornitorinco, l’importante è tenere a mente che la saggezza sta proprio nel lasciarsi sorpendere a pensarla un po’ più povera di come la penseremo dopo aver letto/ascoltato/sentto quella determinata opinione.  La saggezza si trova sempre laddove non te l’aspetti: un passo oltre la tua opinione, un metro più in là del tuo pregiudizio, una spanna sopra a qualsiasi etichetta di “filosofo”, “saggio” o “ornitorinco”. Aristotele diceva che la filosofia ha a che fare con la “meraviglia”. La meraviglia è scoprire che c’era sempre qualcosa di diverso, più ampio, magari inaspettato, da pensare insieme.

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Il problema della serietà newsletter daily cogito rick dufer michela murgia

Un silenzioso commento su Michela Murgia

Il problema della serietà Questo era proprio il classico argomento di cui non volevo parlare. E ne parlo qui perché è il contesto giusto: riflessivo, lontano dal casino e dai riflettori di YouTube (infatti non produrrò una puntata di Daily Cogito a riguardo). Oggi vorrei parlarvi dell’intervista che Michela Murgia ha rilasciato al Corriere a riguardo dello stato terminale della sua malattia. Partiamo dal fatto che leggere l’intervista mi ha fatto stare molto male. Ai miei occhi è evidentemente il tentativo di elaborazione di una perdita futura (e presente: la perdita del futuro) in cui la persona usa lo strumento che ha imparato a conoscere meglio durante la sua vita, ovvero il clamore mediatico. L’intervista mi ha ricordato quelle rilasciate da Nadia Toffa anni fa, che anche allora mi lasciarono l’amaro in bocca a lungo. Ognuno elabora il dolore nel modo che ritiene più opportuno, ma dovremmo anche ricordarci che quel dolore non è veicolo di insegnamenti, se non per chi lo vive. Per questo, l’esposizione mediatica rimane, a mio avviso, il mezzo peggiore con cui elaborare lutti e perdite nel momento in cui si stanno vivendo. “Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. (…) Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno.” In questo passaggio Murgia esprime un’idea molto interessante ma anche molto personale. Ora, io non so come lei stia intimamente vivendo la vicenda (ricordiamocelo: quel che viene mostrato in pubblico è raramente quel che si vive interiormente) e non so quanto questo tipo di narrazione provenga dalla volontà di mostrarsi forte e determinata. Quel che so è che non tutti coloro che usano il linguaggio bellico contro la malattia stanno “facendo la guerra a se stessi”. Infatti, Murgia dice: “Parole come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia molto gentile.” Al di là del fatto che spesso il cancro è una malattia tutt’altro che gentile, ma l’accettazione di un destino non passa per l’accettazione del cancro come “gentile”. Qui mi ricorda Nadia Toffa, quando diceva che il cancro era la cosa migliore che le fosse capitata. E per quanto possa esserci un barlume di verità (magari la scoperta della malattia ti spinge a vivere appieno relazioni che davi per scontate, et cetera), non è mai vero quando viene espresso al di fuori della soggettività: diventa una narrazione che distorce il significato stesso della “lotta” contro una malattia. Un po’ come quando capita un terremoto che ammazza centinaia di persone: io posso sapere in cuor mio che nel terremoto non c’è nulla di malvagio e che il movimento tettonico terrestre non è mio nemico, ma ciò non mi esenta dal vivere una metafora in cui il terremoto diventa anche un nemico, un ricordo, un concetto contro cui rivolgere la mia rabbia, per quanto senza scadere nella superstizione. Accettare il fatto che il tumore è un cumulo di cellule distorte e prive di un piano maligno non significa esentarsi dall’idea di combatterlo come combatterei un invasore in casa mia. Siamo anche le nostre metafore e nulla di male c’è nell’adottarle in modo consapevole. Michela Murgia però non si limita ad esprimere la sua soggettività, esprime un forte giudizio nei confronti di chi invece vuole fare la guerra alla malattia: “Ognuno reagisce alla sua maniera e io rispetto tutti. Ma definirlo così [un alieno, ndr] sarebbe come sentirsi posseduta da un demone. E allora non servirebbe una cura, ma un esorcismo. Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me. Non avrei mai trovato le energie per scrivere questo libro in tre mesi” Ecco, qui le cose cominciano ad andare malino. L’intervista è palesemente un “testamento” in cui la Murgia cerca in tutti i modi di elaborare il proprio lutto marchiando a fuoco le proprie idee, sapendole intoccabili nel momento in cui lei è la vittima di un fatto tragico. Ha l’ardire di piazzare Putin e Zelensky in un discorso che nulla ha a che vedere con la guerra in Ucraina, spostando subito il discorso dalla sua intimità alla politica. Questa è un’elaborazione di lutto drammatica, triste, che forse non sarebbe stato neanche opportuno pubblicare (non per censura, ma per compassione e vicinanza umana – dissi la stessa cosa con il caso di Nadia Toffa chiedendomi cosa passasse per la testa delle persone che la circondavano e che avrebbero dovuto tenerla lontana dalla dopamina dei riflettori per stare vicina a chi l’amava, invece di delirare sui giornali). E lo statuto di “vittima” di Murgia (lei questo, sono certo, lo sa bene, o forse lo sapeva in passato quando era più lucida) le concede anche la possibilità di dire le cose in modo più aspro, grave, audace, senza poter essere criticata e confutata. Non è bello da vedere. Nell’intervista vengono ficcate dentro alla rinfusa (e alla confusa) colonialismo, Elly Schlein, basi militari, famiglia queer, Salvini, come se la Murgia avesse dovuto comprimere tutta la carriera delle sue idee in poche righe in quello che è, appunto, un testamento da lasciare a nessuno e che testimonia solo una fragilità nascosta sotto la segnalazione delle virtù. Alla domanda sul nucleo familiare tradizionale, Murgia risponde: “Ma finiscono per vivere di tradimenti e di bugie. Che diventano il loro segreto, e la loro vergogna”, dimenticando che per milioni di persone quel nucleo non è fatto solo di tradimenti e bugie, ma anche di vicinanza e complicità, soprattutto nei momenti simili a quelli che lei sta vivendo (come se poi tradimenti e bugie non

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